Apuleio      - LE METAMORFOSI -

ovvero: L'asino d'oro


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LIBRO OTTAVO 

I  Al canto del gallo giunse dalla vicina città un giovane che mi parve fosse uno dei servi di Carite, cioè di quella fanciulla che aveva condiviso con me tante pene per mano dei briganti. «Costui, sedendosi presso il fuoco, in mezzo al gruppo degli altri servi, portò la notizia dell'atroce e strana morte di lei e della rovina che era piombata su tutta la sua famiglia. «Stallieri, pastori e bovari» cominciò a dire. «Carite non è più, la poveretta se n'è andata ai Mani, e non lei sola. È stata una disgrazia tremenda. Ma perché voi possiate sapere ogni cosa, conoscere tutti i particolari, voglio cominciare dal principio. Sono accadute cose da romanzo, degne di essere messe per iscritto da chi ha la fortuna di saper tenere la penna in mano. «Dunque, nella vicina città, viveva un giovane di famiglia nobile, molto noto quindi e anche molto ricco, un depravato però, che bazzicava nelle bettole e nei bordelli, sempre in mezzo ai bagordi da mattina a sera, e per questo anche in rapporto con certe bande di malfattori, non estraneo finanche a qualche fatto di sangue. Si chiamava Trasillo e il nome non smentiva la sua fama. 

II «Appena Carite fu in età da marito costui si fece subito avanti fra i pretendenti più in vista a chiederne la mano e benché per nobiltà fosse di gran lunga superiore agli altri e cercasse con bellissimi doni di ottenere il consenso dei genitori della ragazza, proprio per i suoi riprovevoli costumi dovette subire l'affronto di un rifiuto. «Così, quando la padroncina fu promessa in sposa al buon Tlepolemo quello continuò a covar dentro di sé una morbosa passione cui si aggiunse ora la rabbia per la delusione patita arrivando perfino a cercare l'occasione per una sanguinosa vendetta. «Il momento opportuno per rifarsi avanti non si fece attendere e così egli poté accingersi al delitto che da tempo meditava. «Il giorno in cui la fanciulla, per il coraggio e l'astuzia del suo fidanzato, fu liberata dalle mani dei briganti e sottratta alla minaccia delle loro armi, egli si mescolò allo stuolo degli amici accorsi per congratularsi, ostentando la sua contentezza, complimentandosi con gli sposi novelli per lo scampato pericolo, e beneaugurando per la prole futura. «In considerazione del suo illustre casato egli fu così accolto in casa nostra fra gli ospiti di maggior riguardo e qui cominciò a recitar la parte dell'amico fedelissimo ben dissimulando il suo proposito delittuoso. «Nelle conversazioni abituali, nelle frequenti visite, durante i pranzi o quando si beveva insieme un bicchiere, egli finì col diventare l'ospite più gradito e simpatico ma anche col precipitare sempre più in fondo, e senza accorgersene, nell'abisso della sua passione. «Così è, purtroppo! La fiamma del crudele amore fino a quando è un focherello, allieta col suo tepore, quando poi, dalli oggi, dalli domani, le si dà esca, la si alimenta, allora diventa un insopportabile incendio e divora completamente l'uomo. 

III «Già da tempo Trasillo pensava a un luogo adatto per incontrarsi segretamente con Garite ma per il gran numero di servi che bazzicavano per casa, si rendeva conto che una relazione clandestina era praticamente impossibile; d'altro canto sentiva di non essere più capace, ormai, di spezzare i lacci tenaci di quella sua recente e crescente passione e che se anche la fanciulla avesse consentito, ma come poteva?, la sua inesperienza in fatto di amori extraconiugali avrebbe reso la cosa ancor più difficile. Tuttavia era proprio la difficoltà dell'avventura a spingerlo a tentarla con accanita ostinazione, come se fosse una conquista a portata di mano. E, infatti, se in un primo momento la cosa gli parve difficile, poi, man mano che la passione gli cresceva dentro, egli ritenne di poterne facilmente venire a capo. D'altronde è vero; via via che un amore si rafforza, tutto sembra più facile, anche quello che in un primo momento pareva difficile. «Ma state a sentire, vi prego, fate attenzione adesso e vedete un po' fino a che eccessi arrivò la sua furiosa passione. 

IV «Un giorno Tlepolemo, preso con se Trasillo, se ne andò a caccia di fiere, se fiere possono chiamarsi i caprioli; Carite, infatti, non voleva che il marito cacciasse animali armati di zanne e di corna. «Giunti a un'altura boscosa, ombreggiata da un fitto intrico di cespugli, dove per sottrarsi allo sguardo dei cacciatori si nascondevano i caprioli, furono mollati i cani, tutti segugi di buona razza, perché stanassero la selvaggina e subito essi, perfettamente addestrati com'erano, si sparsero per la macchia, chiusero tutte le vie d'uscita, prima con sordi mugolii, poi, a un improvviso segnale, riempendo tutto il bosco con i loro furiosi e assordanti latrati. «Ma non fu stanato né un capriolo, né un daino, né un cerbiatto che di tutti gli animali selvatici è il più mansueto; saltò fuori, invece, un cinghiale enorme, di dimensioni mai viste, tutto muscoli vibranti sotto la sua cotenna, tutto coperto di peli ispidi, di grosse setole sulla schiena: aveva la bava alla bocca, digrignava le zanne, i suoi occhi minacciosi mandavano lampi, le sue mascelle erano tutte un fremito e con un impeto fulmineo si lanciò all'attacco. Prima di tutto, dando colpi di zanna a destra e a manca, fece a pezzi i cani più audaci che lo incalzavano da vicino, poi, lacerando le reti che al momento lo avevano trattenuto, passò oltre. 

V «Noialtri, presi da un grande spavento, abituati com'eravamo a cacciare soltanto animali innocui e trovandoci indifesi e disarmati, andammo tutti a nasconderci nel folto dei cespugli e sugli alberi. Trasillo, invece, cogliendo l'occasione propizia per il suo tranello, astutamente cominciò a provocare Tlepolemo: 'Ma che ci succede? Siamo proprio anche noi spaventati a tal punto da restarcene imbambolati come questi servi vigliacchi, o tutti tremanti come femminette, e intanto ci lasciamo sfuggire questa bellissima bestia? Che aspettiamo a saltare a cavallo e, in un attimo, a raggiungerla? Alè, prendi uno spiedo, io una lancia' e, senza attendere oltre, balzarono a cavallo e si lanciarono all'inseguimento della fiera; la quale, non ignorando la sua forza, fece un improvviso dietro front e, tutta fremente di ferocia, arrotando le zanne, raccolse il suo impeto contro di loro, esitando un attimo come per scegliere chi dei due dovesse caricare per primo. Tlepolemo, prevenendola, le scagliò nelle reni il suo spiedo ma Trasillo, invece di colpirla a sua volta, con un colpo di lancia troncò i garretti posteriori del cavallo di Tlepolemo che, arrovesciandosi indietro nel proprio sangue, senza volerlo, trascinò nella caduta il suo cavaliere. «Fu un attimo: il cinghiale, vedendo il giovane a terra, gli fu addosso furibondo e mentre egli tentava dì rialzarsi, con ripetute zannate, gli lacerò le vesti e le carni. «Quel buon amico di Trasillo certo non si pentì del suo crimine, anzi non si ritenne nemmeno del tutto soddisfatto vedendo l'altro in così gran pericolo, vittima sacrificata alla sua crudeltà, e così, mentre Tlepolemo, trafitto ormai da ogni parte, cercava invano di proteggersi dai colpi e gli implorava disperatamente aiuto, quello, freddamente, gli piantò la lancia nella coscia destra, sicurissimo che la ferita della sua arma sarebbe stata del tutto simile alle altre provocate dai denti dell'animale. Infine, con un colpo ben assestato, trafisse anche la fiera. 

VI «Così morì il povero Tlepolemo e noi servi, chiamati fuori dai nostri nascondigli, accorremmo tutti addolorati. «Ma Trasillo, benché tutto lieto d'aver raggiunto il suo scopo con la morte del rivale, dissimulò la gioia e aggrottando la fronte e fingendo una grande afflizione, Si gettò sul corpo dell'amico che egli stesso aveva ucciso e imitò a perfezione chi si dispera e piange per qualche disgrazia: solo le lacrime non riuscì a farsi venir fuori. Così, conformandosi a noi che eravamo, però, sinceramente addolorati, incolpava la fiera di ciò che egli aveva compiuto con le sue mani. «Il delitto era stato appena compiuto che subito se ne diffuse la notizia la quale, prima che altrove, giunse alla casa di Tlepolemo e agli orecchi della sposa infelice. «Come una pazza Carite, a una notizia così tremenda, inaudita, fuori di sé e sconvolta dal dolore, si slanciò per le strade affollate, per i campi, urlando con voce alterata la morte del marito. «In folla accorsero i cittadini, tristi, e, associandosi al suo dolore, le si fecero intorno, la seguirono, tutta la città si svuotò per correre a vedere. «Quando la poveretta giunse trafelata accanto al cadavere del marito, senza più forze, si lasciò cadere su quel corpo e lì per poco non rese l'anima che aveva a lui consacrata. «A stento fu strappata di lì dalle mani dei suoi e, suo malgrado, rimase in vita, mentre il morto, seguito da tutto il popolo in solenne processione, veniva accompagnato al luogo della sepoltura. 

VII «Anche Trasillo gridava e si batteva il petto, fin troppo forte, anzi quelle lacrime che prima non era riuscito a spremere per il dolore, ora, per la gioia incontenibile, gli scendevan giù copiose e, insieme ad altre mille esclamazioni di affetto, riuscivano a ingannare la stessa verità: chiamava Tlepolemo amico, coetaneo, compagno, fratello, lo invocava per nome con lamenti che strappavano il cuore e intanto prendeva nelle sue le mani di Carite perché ella cessasse di colpirsi il petto; cercava di calmare la sua disperazione, di frenare i suoi lamenti, di lenire con parole carezzevoli il suo acuto dolore, la consolava portandole vari esempi di altrettanti luttuosi incidenti. Ma tutta quella simulata pietà non era che un pretesto per palpeggiarsi la donna e alimentare con illeciti diletti il suo esecrabile amore. «Appena ebbero termine le onoranze funebri la giovane fu impaziente di raggiungere suo marito e, considerate tutte le vie, scelte quella più dolce e più lenta, che non ha bisogno d'arma alcuna, che è simile, piuttosto, a un placido sonno: insomma la poverina decise di lasciarsi morire d'inedia e, trascurando completamente la sua persona, nascondendosi nelle tenebre più fitte, aveva già detto addio alla luce. «Ma Trasillo, a furia di insistere, o di persona o ricorrendo all'aiuto dei familiari o degli amici o degli stessi genitori della giovane, riuscì a tirarla fuori e a far sì ch'ella si decidesse a concedere a quel suo corpo, già roso dalla sporcizia e che aveva già il pallore della morte il ristoro di un bagno e di un po' di cibo. «E così Carite, timorata com'era dei suoi genitori piegandosi al dovere che l'affetto le imponeva ma suo malgrado e con volto certo non lieto anche se un po' più sereno, riprese il suo posto tra i vivi, come le era stato ordinato. Ma nel suo cuore, nel più profondo dell'animo suo, sentiva pena e dolore e consumava i suoi giorni e le sue notti in un cupo rimpianto, del marito morto s'era fatta riprodurre l'effigie sotto l'aspetto del dio Bacco e ad essa con assidua devozione rendeva onori divini e questo era per lei una consolazione e, insieme, un tormento. 

VIII «Ma Trasillo, ardito e, come dice il suo nome, temerario, prima ancora che le lacrime avessero placato il dolore e che si fosse acquietato il delirio di una mente sconvolta e la pena fosse scemata col tempo chiudendosi in se stessa, a lei che ancora piangeva lo sposo, che ancora si lacerava le vesti e si strappava i capelli, non esitò a parlare di nozze e a svelare spudoratamente il segreto che covava dentro e le sue incredibili infami intenzioni. «Inorridì Carite e si ribellò a quella ignobile proposta e come colpita da un gran tuono o da una forza celeste o dallo stesso fulmine di Giove, cadde a terra priva di sensi. Quando dopo un po' riprese conoscenza cominciò a gridare come una belva, e, comprendendo ormai la parte sostenuta dall'infame Trasillo, menò per le lunghe la richiesta del pretendente per meglio riflettervi. «Fu appunto in questo lasso di tempo che l'ombra di Tlepolemo, così tragicamente ucciso, sporca ancora di sangue e irriconoscibile nel suo pallore, apparve nei casti sogni della sposa: 'O moglie mia' le diceva 'che qualcun altro ormai potrà anche chiamarti così, se nel tuo cuore s'è affievolito il mio ricordo o se per la mia morte immatura s'è spezzato il vincolo d'amore che ci legava, sposa pure chi vuoi e sii felice ma, in nessun modo, non darti a Trasillo, non metterti nelle sue sacrileghe mani, evita di parlargli, di sedere alla sua mensa, di entrare nel suo letto. Sta' lontana dalla mano insanguinata del mio uccisore, non iniziare la tua nuova vita di sposa con un assassino. Quelle ferite che lavasti con le tue lacrime non furono tutte prodotte dalle zanne del cinghiale: fu la lancia del perfido Trasillo a separarmi da te.' E altro ancora aggiunse chiarendo perfettamente come s'erano svolti i fatti. 

IX «Carite, che poco prima s'era addormentata tutta triste, la faccia contro il guanciale, e che anche nel sonno rigava le sue gote di lacrime, riscuotendosi da quel suo riposo agitato, come da un incubo, risentì la stretta del dolore e ricominciò a dare in lunghi e acuti lamenti, a strapparsi la veste, a martoriarsi le belle braccia con le sue piccole mani crudeli. «Però non accennò ad alcuno del suo sogno ma fingendo di non saperne nulla del delitto, decise di punire l'infame assassino e poi di por fine a quella sua vita senza più gioia. «E così, ogni volta che l'odioso pretendente tornava nuovamente alla carica, martellando con domande di nozze quelle orecchie che non erano disposte ad ascoltarlo, ella amabilmente respingeva le sue proposte e alle insistenze, alle implorazioni di lui, a meraviglia e astutamente recitava la sua parte: «'I miei occhi,' diceva, 'sono ancora pieni dell'immagine del mio adorato marito che per te era come un fratello; sento ancora il profumo del suo corpo divino che sapeva di cinnamomo. Oh, il bel Tlepolemo è ancora vivo nel mio cuore. Comportati da quel galantuomo che sei e concedi a questa povera donna che sia trascorso con i mesi che restano, almeno il tempo necessario, cioè l'anno di lutto stabilito. Questo, sia per difendere il mio pudore che per il tuo interesse, perché non vorrei suscitare l'ombra adirata di mio marito e il suo giusto sdegno per le nozze premature con funeste conseguenze per la tua incolumità.' 

X «Trasillo non era soddisfatto da discorsi simili e tanto meno lusingato da una promessa che pure dava una precisa scadenza, e così continuò a incalzarla con proposte illecite, senza darle respiro, fino a quando Carite, fingendosi vinta, un giorno non gli disse: 'Va bene; però, caro Trasillo, tu devi assolutamente concedermi che noi ci troviamo di nascosto e che nessuno, neanche quelli di casa, venga a sapere della cosa prima che siano trascorsi i giorni che mancano a finir l'anno di lutto.' «Trasillo s'arrese alla donna e cadde nel tranello di quella insidiosa promessa. Ben volentieri consentì a quegli amori clandestini e trascurando ogni cosa pur di possedere Carite, altro non chiese che scendesse presto la notte con le sue tenebre più nere. «'Fa' attenzione' gli raccomandò Carite 'avvolgiti bene nel mantello e non farti accompagnare da nessuno. Alle prime ore della notte avvicinati piano alla mia porta, fa' un fischio e aspetta la mia governante che starà dietro l'uscio ad attenderti. Essa ti aprirà e ti farà strada, al buio, fino al mio letto.' 

XI «Piacque a Trasillo questa messinscena di nozze per lui fatali e senza sospettare di nulla ma tutto smanioso, nell'attesa, si rammaricava che il giorno fosse tanto lungo a passare e la notte tanto lenta a venire. «Ma quando il sole lasciò il posto alle tenebre egli, puntualissimo, e tutto avvolto nel suo mantello come gli aveva raccomandato Carite, con la ingannevole complicità della nutrice ch'era lì ad aspettarlo, scivolò nella camera di lei, pieno di speranza. La vecchia, allora, secondo le istruzioni ricevute, lo intrattenne amabilmente porgendogli delle coppe e un'anfora di vino nella quale furtivamente aveva messo del sonnifero, pregandolo di giustificare il ritardo della padrona trattenuta al letto del padre ammalato. «Senza alcun sospetto Trasillo cominciò a bere a garganella e fu un gioco farlo piombare in un sonno profondo. Quando, infine, egli giacque riverso, del tutto indifeso e inoffensivo, la vecchia chiamò Carite che nel suo virile risentimento e fremente di rabbia si precipitò dentro e s'avventò sull'assassino. 

XII «'Eccolo qui,' gridò,' l'amico fidato del mio sposo, il leale cacciatore, il mio affettuoso pretendente. Questa è la mano che sparse il mio sangue, questo il petto che ha ordito gli inganni infernali per la mia rovina, questi gli occhi ai quali piacqui per mia sventura ma che, avvolti come sono ora nelle tenebre anticipano già la pena che li attende. Riposa pure tranquillo, fa' pure sogni felici. Non avrò spada, io, non lancia per ucciderti. Non voglio che tu somigli al mio sposo fosse pure nel genere di morte: tu vivrai, ma a morire saranno i tuoi occhi e non vedrai più nulla se non in sogno. Farò in modo che più fortunato stimerai il tuo rivale per la sua morte che non te per la tua vita. Non vedrai mai più la luce e avrai sempre bisogno della mano di un compagno, ma non avrai quella di Carite, non godrai delle sue nozze, né ti consolerà la pace della morte, né gioirai dei piaceri della vita ma, ombra inquieta, andrai vagando tra l'Averno e il sole e a lungo cercherai quella mano che ti ha preso gli occhi e non saprai di chi lagnarti e questo farà la tua sventura ancora più orribile. Io, invece, offrire al sepolcro di Tlepolemo il sangue delle tue pupille, sacrificherò ai suoi santi Mani questi tuoi occhi. Ma perché dilazionare la pena che ti aspetta? magari lasciarti godere in sogno dei miei amplessi a te fatali? Sgombra le tenebre del sonno e destati per entrare in quelle del tuo castigo. Leva in alto il tuo volto spento, riconosci la vendetta, renditi conto della tua sventura, valuta la tua pena. Cosi sono piaciuti i tuoi occhi alla casta moglie, così le fiaccole nuziali hanno illuminato le tue nozze. Ti saranno pronube le Furie vendicatrici, compagna la cecità, continuo tormento il rimorso.' 

XIII «Questa la sorte che la donna assicurò a Trasillo e, trattosi dai capelli uno spillone, lo immerse negli occhi di lui. «Quindi lasciandolo lì completamente cieco a dibattersi in un dolore di cui non si rendeva conto e che lo aveva riscosso dal sonno e dalla sbornia, ella afferrò la spada che Tlepolemo soleva portare e, sguainatala, si lanciò in folle corsa attraverso la città e si diresse al sepolcro del marito, certo col proposito di compiere chissà qual gesto insano. «Tutti noi, l'intera popolazione, ci precipitammo fuori delle nostre case e le corremmo dietro costernati esortandoci a vicenda a strapparle il ferro di mano, impazzita come sembrava. «Ma giunta al sepolcro di Tlepolemo ci tenne tutti lontani con la sua spada che mandava bagliori e quando vide il nostro gran piangere, i lamenti e i sospiri di una folla intera: 'Smettetela' disse, 'con queste lacrime importune, scacciate un dolore che non si addice alla mia virtù. Mi sono vendicata del feroce assassino di mio marito; ho punito colui che mi ha tolto lo sposo. Ora è tempo che con questa spada mi apra la via che mi ricongiunga al mio Tlepolemo.' 

XIV «E dopo averci narrato ad uno ad uno tutti i particolari che il marito le aveva rivelato in sogno, l'inganno con cui aveva adescato e poi ucciso Trasillo, si immerse la spada sotto la mammella destra e cadde sul suo stesso sangue balbettando parole incomprensibili, e virilmente spirò. «I parenti lavarono il corpo della povera Carite, lo composero in un'unica sepoltura e restituirono al marito, per l'eternità, la sua sposa. «Quanto a Trasillo, risaputa ogni cosa, non riuscendo a trovare una morte adeguata a tanta catastrofe e comprendendo che neanche una spada sarebbe stata sufficiente a lavare così nefando delitto, si fece condurre presso quella tomba ed esclamando più volte 'Eccovi, o irati Mani, la vittima volontaria', chiuse dietro di sé le porte del sepolcro e, deciso a porre volontariamente fine ai suoi giorni, si lasciò morire di fame.» 

XV Queste cose, tra lunghi sospiri e qualche lacrima, riferì quel servo ai contadini che rimasero profondamente impressionati; anzi temendo un nuovo padrone e commiserando la sventura toccata al loro signore, decisero di fuggire. Ma il capo delle scuderie, quello al quale io ero stato affidato con mille raccomandazioni, lasciò la vecchia dimora accatastando sulla mia schiena e su quella degli altri quadrupedi tutto ciò che teneva nella sua casetta e avesse qualche valore. Portavamo bambini, donne, polli, uccelli, capretti, cagnolini, insomma tutto ciò che per la propria lentezza ci avrebbe ritardato la marcia; camminava con i nostri piedi. A me, però, il carico che portavo, per quanto fosse enorme, non era gravoso dal momento che con quella fuga provvidenziale mi lasciavo indietro quel detestabile individuo che mi voleva castrare. Superato un monte ripido e boscoso, ridiscesi nuovamente al piano, procedemmo fra i campi liberi e aperti finché non giungemmo a un borgo ricco e popoloso che già stava annottando. Gli abitanti ci raccomandarono di non uscire di notte e nemmeno di prima mattina, perché, ci dissero, lupi giganteschi, ferocissimi, in grossi branchi infestavano e rapinavano tutta la regione, anzi si appostavano lungo le strade e assalivano i viandanti come veri e propri banditi; resi ancor più feroci dalla fame, addirittura attaccavano i vicini villaggi minacciando di strage gli stessi abitanti come se fossero pecore inermi. E aggiunsero anche che proprio la strada che dovevamo percorrere era disseminata di corpi umani semidivorati e biancheggiava qua e là di ossa spolpate e che noi, quindi, dovevamo procedere con ogni cautela e soprattutto riprendere il cammino in piena luce, a giorno fatto, col sole alto, proprio per evitare le insidie che si celavano da ogni parte, dal momento che soltanto la luce frenava l'impeto di quelle bestie feroci; e che, se volevamo superare tutte quelle difficoltà, dovevamo avanzare in gruppo serrato, a cuneo, e non in ordine sparso. 

XVI Ma quegli sconsiderati che nella loro fuga avevan tirato dietro anche noi, per la smania di far presto, nel timore di un improbabile inseguimento, se ne infischiarono di quei saggi avvertimenti e senza aspettare che venisse giorno, in piena notte, carichi come eravamo, ci rimisero in strada. Io, per la paura del pericolo ventilato, me ne stavo nascosto più che potevo nel gruppo dei cavalli pensando a salvare le chiappe dall'assalto delle fiere, e tutti si meravigliavano come riuscissi ad allungare il trotto e addirittura a correre più degli stessi cavalli. Eppure quella fretta era segno di fifa, non di zelo, tanto che fra me cominciai proprio a credere che quel famoso Pegaso, per la paura, avesse messo le ali e che se la leggenda che l'aveva rappresentato alato, era stato proprio per quel gran salto che aveva spiccato fin su nel cielo, per la fifa d'essere morsicato dalla Chimera vomitante fiamme. Del resto anche quei pastori che ci guidavano erano come se stessero andando alla guerra. Chi portava una lancia, chi uno spiedo, chi delle frecce, chi un bastone o anche pietre che la strada sassosa forniva in quantità alcuni poi s'eran presi dei pali acuminati, parecchi, infine, tenevano lontane le fiere con fiaccole accese. Non mancava niente, eccetto la tromba, per essere una vera e propria squadra in assetto di guerra. Ma tutti presi da quella nostra paura che doveva rivelarsi inutile noi incappammo in un guaio peggiore. I lupi, infatti, spaventati forse dal baccano di quella schiera compatta di giovani o dalla luce accecante delle torce, o perché stavan facendo razzia altrove, non solo non ci assalirono ma non si fecero vedere nemmeno da lontano. 

XVII Furono, invece, i contadini di un villaggio che in quel momento stavamo oltrepassando, a scambiarci per una banda di ladri e, preoccupati per i loro averi e tutti impauriti, con i soliti incitamenti e con urla di ogni genere, a lanciarci addosso i cani, bestioni enormi e feroci, assai più dei lupi e degli orsi, addestrati con cura proprio per la difesa e la guardia. Questi, feroci per natura e aizzati dalle grida dei loro padroni, si lanciarono contro di noi e, attaccandoci da tutti i lati, ci saltarono addosso, azzannando senza alcuna distinzione bestie e uomini e atterrandone molti con ripetuti assalti. Fu una scena davvero indimenticabile e più ancora pietosa: un nugolo di cani inferociti che azzannavano quelli che tentavano di fuggire, che s'avventavano su chi era rimasto fermo, che saltavano addosso ai caduti, che correvano di qua e di là in mezzo alla nostra schiera distribuendo morsi. Ed ecco che a questo malanno se ne aggiunse un altro peggiore: i contadini, dall'alto dei tetti e giù dal colle vicino cominciarono a farci piovere addosso una violenta sassaiola, tanto che a un certo punto noi non sapemmo più da che cosa dovessimo prima guardarci, se dai cani che ci erano addosso o dai sassi che piombavano su di noi da lontano. A un certo momento una pietra colpì giusto al capo la donna che mi sedeva sulla schiena, la quale cominciò a strillare e a piangere per il dolore e a chiamare in aiuto suo marito, uno dei mandriani. 

XVIII Quello accorse sacramentando e mentre asciugava il sangue alla moglie cominciò a urlare: «Ma perché vi accanite contro della povera gente, contro stanchi viandanti? Perché ci attaccate e ci massacrate con tanta ferocia? Cosa credete di poterci prendere? Che male vi abbiamo fatto? Eppure non abitate mica nelle spelonche come le belve o fra le rocce come i selvaggi per prendervi il gusto di spargere sangue umano!» Aveva appena detto questo che la gragnuola di sassi cessò e così la furia scatenata dei cani che vennero richiamati. Poi uno dalla cima di un cipresso: «Non vi abbiamo assaliti per prendervi la vostra roba, ma, al contrario, solo per difendere la nostra da un vostro assalto. Ora però la pace è fatta e voi potete proseguire sicuri.» Alle sue parole noi riprendemmo la marcia, chi più, chi meno tutti feriti e malconci o per i morsi dei cani o per i colpi di pietra e dopo un buon tratto di strada giungemmo a un bosco fitto di grandi alberi e rallegrato da verdeggianti prati. Qui i nostri conducenti pensarono di fermarsi un pochino per riposare e medicar le ferite. Così si sdraiarono per terra a riprendere fiato poi si dettero da fare con vari rimedi intorno alle loro piaghe: uno con acqua di fonte toglieva il sangue, un altro comprimeva il gonfiore con spugne inzuppate d'aceto, un terzo stringeva con bende le ferite aperte, ciascuno, insomma, provvedeva da sé a curarsi. 

XIX Intanto dalla cima di un colle un vecchio ci guardava, che fosse un pastore lo capimmo dalle capre che gli pascolavano intorno. Ma quando uno dei nostri gli chiese se avesse del latte fresco da venderci o almeno del formaggio, quello, scuotendo a lungo la testa, per tutta risposta ci fece: «Ma come? proprio ora voi pensate a mangiare, a bere e a far la siesta? Ma non sapete dove vi trovate?» e tiratesi dietro le sue caprette scomparve ai nostri sguardi. Queste parole, quel suo improvviso allontanarsi fecero nascere nei nostri mandriani una paura mica da poco e mentre, tutti impressionati, si chiedevano in che luogo fossero mai capitati, e non scorgevano nessuno che potesse informarli, ecco che apparve lungo la strada un altro vecchio, alto, carico d'anni, tutto curvo sul suo bastone dal passo lento e strascicato; piangeva, e quando ci vide raddoppiò le sue lacrime e venne a prostrarsi alle ginocchia di quei giovani. 

XX «Che la fortuna e i vostri genii vi facciano giungere sani e salvi alla mia età,» cominciò a implorare. «Ma voi aiutate questo povero vecchio, strappate alla morte il mio nipotino, rendetelo ai miei capelli bianchi. Vi dirò: mio nipote, dolce compagno di questo viaggio, mentre cercava di afferrare un uccellino che cantava sulla rupe, è scivolato in un fosso qui vicino, sotto i rami più bassi di quegli alberi, ed è in estremo pericolo di vita. È ancora vivo, perché lo sento che piange e chiama spesso suo nonno ma, come potete vedere, mi mancano le forze per poterlo soccorrere. Ma a voi che siete giovani e forti sarà facile dare una mano a questo povero vecchio e salvarmi il bambino, l'ultimo della mia famiglia e l'unico mio discendente.» 

XXI Tutti ebbero compassione di quel vecchio che li supplicava e si strappava i bianchi capelli; e uno ch'era il più coraggioso di tutti, il più giovane e anche il più forte, il solo ch'era uscito incolume dal putiferio di poc'anzi, si alzò prontamente e dopo aver chiesto dove fosse caduto il bambino, senza indugio seguì il vecchio che, intanto, gli mostrava a dito certi cespugli spinosi poco lontani. Nel frattempo noi ci eravamo rimessi un po' in forze pascolando, i conducenti curandosi le ferite e così ognuno riprese il proprio carico e si accinse a rimettersi in cammino. Preoccupati, però, del ritardo del giovane, invano chiamato per nome più volte e a gran voce, mandarono uno di loro a cercarlo per farlo tornare e avvertirlo ch'era tempo di riprendere il viaggio. Costui tornò poco dopo tutto tremante e livido come una bacca e riferì sul suo compagno una cosa orribile: che lo aveva visto lungo disteso a terra già quasi tutto divorato da un enorme drago che gli stava sopra a finirselo di spolpare, mentre di quel miserabile vecchio nessuna traccia. Collegando questa notizia con il discorso del pastore il quale aveva voluto certamente alludere a quel terribile abitante del luogo e non ad altro, i mandriani fuggirono precipitosamente da quella contrada spingendoci avanti a furia di randellate. 

XXII A perdifiato facemmo un lungo pezzo di strada finché non giungemmo a un villaggio e qui ci fermammo per la notte. In quel luogo però era successo poco prima un fatto che val la pena di raccontare. Uno schiavo, al quale il padrone aveva affidato la sorveglianza di tutta la servitù e, praticamente, la sovrintendenza della sua vasta proprietà, quella dove noi c'eravamo fermati, aveva preso in moglie una schiava che lavorava nella medesima casa, ma s'era follemente innamorato di un'altra donna, di condizione libera e per giunta forestiera. La moglie tradita, accecata dalla gelosia, diede alle fiamme i registri del marito e tutto quanto egli aveva raccolto nel granaio. Non soddisfatta del danno procurato, che non lavava sufficientemente l'onta del tradimento, la donna infierì contro il suo stesso sangue: si legò a una corda insieme con un figliuoletto che aveva avuto a suo tempo dal marito e si precipitò in un pozzo profondissimo, tirandosi dietro come un'appendice quella povera creaturina. Il padrone, profondamente turbato per quella morte, arrestò il servo che con la sua condotta aveva provocato una simile tragedia e lo fece legare nudo e tutto ricoperto di miele a un albero di fico il cui tronco tarlato era tutto un brulicare di formiche che andavano su e giù per il legno, entrando e uscendo da tutti i fori. Appena queste sentirono l'odore dolciastro del miele, in un baleno s'attaccarono a quel corpo e con i loro piccoli ma continui, implacabili morsi, in un supplizio che non pareva aver mai fine, ne rosicchiarono le carni e le stesse viscere fino a spolparlo completamente e finché, attaccate a quell'albero funesto, non rimasero che ossa biancheggianti. 

XXIII Così abbandonammo anche questo infausto luogo e riprendemmo il cammino lasciando alle sue disgrazie la gente sconsolata che vi abitava. Viaggiammo un'intera giornata lungo strade di campagna e, finalmente, stanchi morti, giungemmo a una bella e popolosa città. Qui i pastori decisero di fermarsi definitivamente, di metter su casa, un po' perché quello parve loro un nascondiglio sicuro, lontano da ogni ficcanaso, un po' perché li allettava l'abbondanza e la continua affluenza di viveri. Per tre giorni, così, noi bestie fummo lasciate in pace, anzi ci rimpinzarono a più non posso perché facessimo bella mostra di noi e, poi, ci portarono al mercato e ci misero in vendita. Il banditore a gran voce offrì il prezzo per ciascuno di noi: i cavalli e gli altri asini furono subito comprati da ricchi mercanti, io, invece, rimasi lì tutto solo in un cantuccio e la gente mi passava davanti con una smorfia come se fossi roba di scarto. Alla fine mi venne rabbia d'esser palpato e squadrato da tutti e di sentirmi calcolare l'età dai denti che avevo e così afferrai la mano puzzolente di un tizio che continuava a strizzarmi le gengive con quelle sue mani luride e gliela conciai proprio a dovere. La cosa bastò per togliere a tutti la voglia di comprarmi ed io passai per una bestia ferocissima. Ma il banditore riprese a urlare con la sua voce sgangherata e questa volta si mise a snocciolare sul mio conto un sacco di ridicolaggini: «Ma che stiamo qui a perder tempo per cercar di vendere questo castrone? vecchio per giunta, che sì e no si regge su quei quattro zoccoli consumati, sformato dai dolori, inselvatichito dalla pigrizia, che non vale più di un setaccio da ghiaia. Via, se qualcuno è disposto a rimetterci il fieno, noi glielo regaliamo.» 

XXIV A simili battute la gente rideva ch'era un piacere. Su di me, invece, la sfortuna maledetta tornava a puntare i suoi occhi ciechi, quella sfortuna che da un po' di tempo mi tiravo dietro dovunque andassi e che, nonostante tutti i guai che mi aveva già fatto passare, non s'era ancora stancata di perseguitarmi. Ecco che ora mi offriva un compratore fatto apposta per me, trovato proprio giusto per compensare le mie disgrazie. Pensate un po': un finocchio, un vecchio finocchio, per di più calvo, tranne qualche riccioletto sbiadito e penzoloni attorno al capo, uno della feccia, di quelli che battono le strade e che vanno per piazze e paesi portando in processione la dea Siria e costringendola a chiedere l'elemosina al suono di cembali e nacchere. Ebbene, proprio a costui venne la voglia di comprarmi. «Di che paese è?» fece al banditore. E quello ad assicurarlo. «Della Cappadocia. È ancora forte abbastanza.» «E quanti anni ha?» E l'altro, spiritoso: «Un astrologo, facendogli l'oroscopo ha detto che aveva cinque anni. Tu, però, chiedilo a lui, che deve sapere meglio di tutti il suo stato anagrafico. D'altro canto, per quanto io sia prudente, so che avrò a che fare con la legge Cornelia se ti vendo come schiavo questo cittadino romano. Tu però che aspetti a comprarlo? È un servitore fedele e onesto e ti sarà di aiuto in casa e fuori.» Ma quell'odioso compratore non la smetteva di far domande e, alla fine, tutto preoccupato, chiese se fossi una bestia mansueta. 

XXV «Non è un asino, è un pecorone,» lo rassicurò il banditore, «buono a tutti gli usi; non morde, non tira calci, quasi quasi sotto quella pelle si direbbe che si nasconda un brav'uomo. Prova a metterci la testa fra le cosce e vedrai da te quant'è arrendevole.» Così quel banditore sbeffeggiava il gaglioffo che, capita l'antifona, lo rimbeccò tutto arrabbiato: «Carogna sordomuta,» gli gridò, «imbecille d'un banditore! E da un po' che mi stai menando per il naso con le tue battute oscene. Che l'onnipotente Siria, genitrice di tutte le cose e il santo Sabazio e Bellona e la Madre Idea col suo Attis e Venere regina col suo Adone ti rendano cieco. Ma, idiota che sei, ti pare che io possa affidare la dea a un giumento ribelle che tutt'a un tratto s'impunta e mi getta giù la sacra immagine e io, poverina, a correr di qua e di là, tutta spettinata a cercare un medico per la mia dea stesa in terra?» Io che avevo ascoltato tutto pensai di mettermi a dare sgroppate come un ossesso in modo che quello, vedendomi così inferocito, rinunciasse a comprarmi. Ma quello, ansioso di concludere, mi prevenne e sborsò lì per lì diciassette denari che il mio padrone subito intascò, lieto di sbarazzarsi di me. E così, con una corda attorno al collo, fui consegnato a Filebo, come si chiamava il mio nuovo padrone. 

XXVI E così costui si tirò dietro fino a casa il nuovo servitore. E dalla soglia cominciò a gridare: «Su, bambine, eccovi un bel servitorino, l'ho comprato al mercato.» Ma le bambine altro non erano che un branco di finocchi i quali, subito entusiasmandosi, cominciarono a dare in urletti striduli e fessi, credendo per davvero che si trattasse di un servitorello pronto all'uso. Ma quando videro altro che una cerva sostituita a una vergine, ma addirittura un asino al posto di un uomo ecco che arricciarono il naso e cominciarono a schernire in vari modi il loro maestro, dicendogli che egli s'era portato a casa un marito per lui e non un servo per loro. «Bada, però, veh?» soggiunsero, «non divorartelo tutto tu un cocco così bello, ma lasciacelo un po' anche a noi che siamo le tue colombine.» Scambiandosi piacevolezze di questo genere mi legarono a una mangiatoia lì vicino. Qui trovai un giovane molto robusto, abilissimo nel suonare il flauto, che essi avevano comperato al mercato degli schiavi con i soldi ricavati dalle elemosine. Quando i suoi padroni andavano in giro con la dea, costui li accompagnava suonando il flauto ma a casa, fra tutto il resto, doveva anche fare da marito un po' all'uno e un po' all'altro. Appena mi vide si precipitò a mettermi davanti una gran quantità di cibo e: «Finalmente,» mi fece tutto contento, «sei venuto a darmi il cambio in questa faticaccia. Possa tu vivere a lungo e piacere ai miei padroni per dar così un po' di sollievo alla mia schiena che non ne può più.» E bastarono queste parole perché io già mi figurassi le nuove disavventure che mi attendevano. 

XXVII Il giorno dopo si misero dei vestiti sgargianti, si fecero belli truccandosi in modo osceno, impiastricciandosi la faccia con un cerone schifoso e segnandosi gli occhi, e uscirono in pubblico. Inoltre s'eran posti sul capo delle mitrie e, addosso, dei veli gialli di lino e di seta, alcuni, poi, bianche tuniche con una svolazzante smerlettatura di porpora a punta di lancia, cinture alla vita e sandaletti dorati ai piedi. La dea, avvolta in un manto di seta, me la sistemarono sulla schiena e loro, tiratesi su le maniche fino alle spalle, brandendo spade e scuri enormi, cominciarono a far come le baccanti, a danzare e a saltare, tutti eccitati al suono del flauto, che parevano degli ossessi. Toccarono così parecchie case e alla fine giunsero alla villa di un gran signore e lì, sull'uscio, si misero a fare uno strepito terribile, a cacciare urla assordanti, come degli invasati: dimenavano continuamente la testa, giravano il collo con movimenti lenti e serpentini, si scuotevano i riccioli, di quando in quando poi si davan coi denti nei muscoli e addirittura finirono per ferirsi le braccia con le spade di cui erano armati. Uno poi agitandosi più degli altri e mandando continui sospironi come se fosse posseduto da un nume, fingeva di essere pazzo furioso, quasi come se la presenza di un dio rendesse gli uomini deboli e infermi anziché migliorarli. 

XXVIII Ed ecco il compenso che s'ebbe dalla celeste provvidenza: con un tono enfatico cominciò a inventarsi delle accuse contro se stesso, come se avesse commesso chissà quale sacrilegio e gridava che doveva infliggersi con le sue stesse mani la giusta punizione a tanto crimine. Prese, infatti, uno staffile, di quelli che, di solito, per vezzo, portano questi mezzi uomini, fatto di striscioline di lana ritorta e terminanti in lunghe frange con dentro inseriti ossicini di pecora, e cominciò a colpirsi furiosamente con quell'arnese tutto a groppi resistendo al dolore dei colpi con straordinaria disinvoltura. E così per quei tagli di spada e quei colpi di staffile il lurido sangue di quegli invertiti lordava tutto il terreno; e non è che la cosa mi lasciasse tranquillo: mi chiedevo infatti se tutto quel sangue che colava dalle ferite, per caso non avesse messo voglia allo stomaco di quella dea foresta di assaggiare quello d'asino, così come certi si piccano di voler bere latte d'asina. Quando, alla fine, stanchi di torturarsi o, piuttosto, sazi, la smisero con quello scempio, si dettero da fare a raccogliere le monete d'oro e d'argento che gli avevano gettato, un'anfora di vino, latte, formaggio, focacce di farina e di segale, alcuni avevano anche offerto l'orzo per il portatore della dea e quelli arraffarono tutto con bramosia, riempirono i sacchi che avevano portato con loro apposta e me li ammucchiarono addosso, sicché con quel doppio carico mi pareva proprio d'essere un tempio e insieme un granaio ambulante. 

XXIX Così, girovagando, setacciarono tutta la zona e, alla fine, soddisfatti per la questua ch'era andata meglio del solito, si fermarono in un villaggio e decisero di prepararsi un allegro banchetto. Con la scusa di dover allestire chissà quale cerimonia religiosa per soddisfare con un sacrificio la fame della dea Siria si fecero dare da un contadino un montone bello grasso e, predisposto un pranzetto coi fiocchi, se ne andarono ai bagni. Al ritorno, tutti belli e lavati, si tirarono dietro, come invitato, un contadino, un pezzo di ragazzo, con certe spalle e certi attributi al basso ventre per cui, dopo aver assaggiato soltanto un po' di verdura, quei luridi, proprio davanti alla tavola, montarono in fregola e si abbandonarono a ogni sorta di sconcezze: circondarono quel giovane, lo spogliarono e, dopo averlo disteso a terra, se lo lavorarono con le loro bocche oscene. Non potendo più sopportare la vista di una simile infamia, tentai di gridare: «Soccorso, cittadini» ma venne fuori soltanto una «O» chiara, sonora, tipicamente asinina, ma scompagnata da tutto il resto, e, per di più, assolutamente inopportuna in quel momento. Molti giovani di un villaggio vicino, infatti, che stavano cercando un loro asino scomparso la notte precedente e che scrupolosamente frugavano tutte le locande della zona, sentito il mio raglio, pensarono che in quella casa fosse nascosta la refurtiva e, tutti in gruppo, irruppero dentro per riprendersi la roba loro sorprendendo quegli schifosi proprio nel bel mezzo delle loro oscenità. Subito allora si dettero a chiamare gente e a mostrare a tutti quel turpe spettacolo sbeffeggiando la specchiata illibatezza di quei sacerdoti. 

XXX Confusi da un simile scandalo che in un baleno fu sulla bocca di tutti, rendendoli giustamente odiosi e repugnanti, raccolti i loro bagagli, di nascosto, in piena notte, lasciarono il villaggio, tanto che prima del levar del sole avevano già percorso un buon tratto di strada e a giorno fatto erano ormai lontani in una zona solitaria e fuori mano. Qui, dopo aver parlottato a lungo fra di loro, decisero di farmi la pelle: mi tolsero la dea dalla schiena, la posarono a terra, mi liberarono di tutti i finimenti mi legarono a una quercia e con quel loro staffile tutto nodi e ossicini di montone me ne diedero tante da ridurmi in fin di vita; e ce ne fu uno che voleva tagliarmi i garretti con un'ascia, visto che così brutalmente gli avevo offeso il suo pudore immacolato. Ma gli altri, però, oh, non certo perché ci tenevano a me ma perché vedevano che la dea era riversa a terra, ritennero più opportuno lasciarmi vivere. E così nuovamente mi caricarono di tutti i bagagli e spingendomi a furia di piattonate, giunsero a un'importante città. Qui uno dei cittadini più in vista, un uomo molto religioso, che aveva una particolare devozione per la dea, quando sentì il fragore dei cembali, il rullo dei tamburi e le carezzevoli melodie del canto frigio, subito ci venne incontro e, per voto, volle ospitare la dea e tutti noi nell'atrio della sua grande casa e si fece in quattro per propiziarsi quella divinità sacrificandole grasse vittime con la devozione più profonda. 

XXXI Ricordo che in quest'occasione io fui lì lì per lasciarci le penne. Un colono di questo signore aveva mandato in regalo al suo padrone, un assaggio di quel che aveva cacciato: il cosciotto bello grasso di un cervo enorme che però, sbadatamente, era stato appeso dietro la porta della cucina e nemmeno molto in alto, tanto che un cane, buon cacciatore anch'egli, l'aveva di nascosto afferrato e poi, tutto contento, se l'era data a gambe sotto gli occhi dei guardiani. Accortosi del guaio il cuoco cominciò a imprecare contro se stesso per la sua negligenza, a disperarsi e a piangere inutilmente e quando il padrone ordinò la cena, egli, angosciato e sconvolto, diede un ultimo saluto al suo bambino e si mise a preparare un cappio deciso a impiccarsi. Non sfuggì alla moglie, però, questa disperata risoluzione del marito e strappandogli con forza quel nodo dalle mani: «Ma la paura per il guaio che t'è successo,» gli disse, «t'ha proprio reso pazzo del tutto? Ma non vedi che la divina provvidenza ci ha mandato un rimedio? Se in tutta questa brutta disgrazia sei ancora capace di connettere, cerca di farlo, ascoltami: piglia quest'asino che non è della casa, portatelo in un posto dove non ti vede nessuno e sgozzalo; poi gli tagli la coscia, tale e quale com'era questa che è scomparsa, la fai cuocere per benino in una salsina piccante e gliela servi al padrone al posto di quella di cervo.» A quel disgraziato farabutto non sembrò vero salvar la sua pelle a danno della mia e, apprezzando moltissimo la furbizia della moglie, si mise ad affilare i coltelli per macellarmi.

Traduzioni di riferimento: F. Carlesi e G. Augello

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